é Roberto De Caro
la manifestazione non rivelata

Lo straordinario implica un'eccezionalità, un'emergenza che tende l'uomo.

Roberto De Caro, è il punto di rottura e anello di congiunzione tra lo psichiatra, chiarificatore del proprio gesto artistico, e l'artista che sublima ad “orizzonte” il limite razionale della sua professione. I suoi lavori sono la dimora empirica dell'attesa. L'attesa costituisce la sua posizione di esistenza in un'ansia di ricerca che non attende risposta. Tutto sta in quell'attimo prima, in quell'attimo in cui l'irriconoscibile sta per cedere il passo al riconoscibile, è un profumo rivelatore di una linea senza volto, è quella familiarità che non viene mai soddisfatta, è quella lotta erotica che non diviene mai pornografica. Le sue opere pulsano, chiedono una riconoscibilità che non dovrà mai avvenire, poiché, il suo definirsi implica la morte di quella tensione che rappresenta il “kardìa” del suo lavoro. De Caro opera una sorta di astrazione, ma non ha nulla a che vedere con una scelta aniconica di un'arte che vuole investigare su sé stessa, il suo è un “abs-trahere” nel significato più originario: portare fuori dal riconoscibile, per lavorare, su una conoscenza non percettiva ma di sintesi. La sua operazione, non giunge mai all'oggettività perché a lui interessa solo il suo farsi, il suo esistere. Il suo lavoro è una messa in scena quasi artigianale; il suo retino è reso da una “tessitura” manuale nella cui trama si compie, si sviluppa l'enigma spazio-figura. La figura esiste solo come -forma in fieri- nel magma-spazio, lo scollamento non avviene, poiché dopo l'atto fecondativo De Caro sceglie di permanere nella condizione di travaglio. La “tridimensionalità” materica dei tre diversi elementi che sovrappone, comincia con la carta sulla quale nasce il “retino”che viene manipolata: sgualcendola e strappandola. La tela viene usata come supporto, ed una garza sottile ricopre il tutto favorendo quella sensualità dell'irriconoscibile, quasi una veletta di quei cappellini del secolo scorso. Questa triplicità viene “monoteizzata” per mezzo di una colla ad acqua che scioglie la china del retino, in un dialogo al quale De Caro risponde con un lavoro di tamponamento con queste forme dell'assenza, che prendono vita, fino ad entrare in sintonia con la propria capacità di rappresentazione interna. Quella di De Caro è una “estetica psicologica”, non come indagine artistica ma nella sua radice più lontana (aistànomai: percepire), è un'investigazione conoscitiva della forma che ritrova i suoi postulati nella Gestalttheorie. Come sostiene Arnheim: “La visione non è una registrazione meccanica di elementi, ma l'affermare strutture significanti”.

Aldoina Filangieri di Candida (2002)

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© Roberto De Caro 2000

 

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